SULLA NATURA DEL DIRITTO E I DIRITTI DELL’UOMO

Giancarlo Marcocci


Assioma: Posto che l’individualità si oppone allo stato di universalità che le cose hanno nello spirito, essa designa quello stato concreto d’unità o di in-divisione che è richiesto dall’esistenza, dimodocchè ogni natura esistente o capace di esistere, può porsi nell’esistenza come distinta dagli altri esseri.


Postulato: diritto soggettivo è inteso come facultas agendi in capo ad ogni soggetto umano, cioè come capacità di avanzare “pretese”. Ma, attraverso la regolamentazione oggettiva, il diritto è inteso come norma agendi, che normativizza i comportamenti garantendo la compresenza e compossibilità delle “pretese”.


Tesi: Se il diritto è l’universale calato nel reale secondo la sua stessa natura, ma non esiste che nello spirito quanto alla universalità stessa, allora il diritto o è universale o non è diritto.


Ma qual è quel diritto che gode del più alto grado di universalità? E perché?


Esso è il diritto naturale o legge morale naturale che non è il diritto dei pochi o delle minoranze comunque identificate o delle maggioranze che governano - quando governano! - le democrazie procedurali. Esso si regge sulla vera Giustizia, che non è ideale storico soggetto a mutevoli colpi di coda, ma concetto fondato sulla conformità al bene, che precede il diritto e lo fonda. Come può aversi una legge umana che si definisce “uguale per tutti” e che ammette di essere interpretata a seconda dei casi? Seppure non vi fosse contraddizione nell’affermazione: “la legge è uguale per tutti”, è contraddittoria l’applicazione del diritto rispetto ai soggetti sottoposti a giudizio che nega, sistematicamente, il “senso comune” dell' idea di Giustizia.

Possiamo affermare che la Giustizia – per dirla con Jacques Maritain – è un’idea fattiva o operativa (del diritto), che nasce nello spirito e da esso è nutrita. È la matrice immateriale secondo la quale l’opera (il diritto) viene prodotta nell’essere; questa idea plasma le cose e non è plasmata da esse. Gli uomini sono spiriti limitati ed incarnati e l’idea creatrice non è una pura forma intellettuale. Solo Dio è perfetto creatore, perché può cogliere in se stesso tutte le possibilità di realizzazione dell' idea creatrice. Dunque, al diritto si domanda di essere come un’opera d’arte che tende alla perfezione, senza rifiutare le servitù proprie della condizione umana, ma superando i limiti stessi imposti da essa, per realizzare sempre più la sua spiritualità connaturale.

La legge trova la sua idea regolativa in Dio stesso ed è giusta solo se rispetta l’Essere; è giusto solo ciò che è conforme al bene: l’Essere è il bene.

Per quanto sopra affermato, ci troviamo a pieno titolo in quella disciplina della teoria generale del diritto, in cui abbiamo risposto alla domanda: «Qual è la natura del diritto?». Dopo aver atteso, seppur brevemente, a quella opera intellettiva propria dei filosofi-giuristi, ci apprestiamo ad addentrarci nei meandri della scienza giuridica ponendoci la domanda – che lo stesso Bobbio N. ci suggerisce a proposito del “formalismo giuridico” – seguente: «Come si distinguono i fatti giuridicamente rilevanti da quelli irrilevanti?». Questa è opera propria degli interpreti che trovano nel “normativismo”, i ferri del mestiere a cui sembra non possano rinunciare. Sappiamo che il “normativismo”prende in esame la “forma”, intesa nel senso più comune come contenitore che non muta al mutar del contenuto, dove per contenuto s’intende atti umani e fatti naturali, rapporti ed istituti che diventano giuridici dal momento in cui entrano a far parte degli schemi normativi di un determinato ordinamento giuridico.

I diritti dell’uomo non mutano al mutar delle “forme” nelle quali sono inserite per reclamare il loro esercizio imprescindibile, ma accrescono la propria forza o la diminuiscono a seconda della coscienza storica maturata dalla società civile. Dal momento che però essi – una volta conquistati dall’umanità – rimangono gli stessi nel tempo, il problema consiste nel farne “chiave ermeneutica” per tutti gli altri diritti apprestati nei vari ordinamenti.

Con un’operazione logica potremmo affermare che la seguente proporzione sintetizzi la problematicità del rapporto esistente tra diritto naturale e diritto positivo:


il diritto naturale : alla giustizia = il diritto positivo : alla validità.


Intorno ai due termini giustizia e validità, ruota la discussione tra la prevalenza dell’uno nei confronti dell’altro. La giustizia, come idea operativa – secondo J. Maritain – e la validità, come espressione della conformità del diritto alla volontà dominante, si pongono su due piani distinti ma non opposti: l’uno trascendente, l’altro immanente. Dunque, l’eterno ritorno al diritto naturale è dettato dall’esigenza di agganciare il diritto positivo alla metafisica (preferibilmente cristiana), sicché questo possa codificare ciò che è già iscritto nella essenza delle cose, secondo i propri modi d’essere.

Dal momento che una filosofia del diritto nell’orizzonte della “coesistenzialità” trae vigore dall’affermazione del rispetto delle reciproche “spettanze”, sul piano ontologico è la persona umana che diventa centro di imputazione di diritti ed interessi: l’uomo è la spiegazione del perché radicale del diritto in quanto fine e causa originante del diritto.

L’uomo è costitutivamente finito e limitato, consapevole della propria difettività ed indigenza sul piano ontologico, e strutturalmente relazionale, da cui nasce l’esigenza ineliminabile di rapportarsi con l’alterità attraverso le regole: il dritto appunto.

Eliminando gli aggettivi qualificativi che accompagnano, nel percorso storico, il concetto di diritto, possiamo affermare che l’eredità consegnataci dall’una e dall’altra corrente è già patrimonio inserito nei c.d. diritti dell’uomo.

La coesistenzialità è la presa d’atto di un’esigenza umana, assicurata attraverso la prevedibilità dei comportamenti, che costituisce il proprium del fenomeno giuridico.

L’obbligatorietà della norma giuridica non risiede nella mera imposizione eteronoma della forza1, perché il “dover essere” non si esaurisce in un atto di volontà, ma è riconducibile ad una “legge della ragione”, radicata oggettivamente (cioè, non arbitrariamente) nella natura dell’essere dell’uomo.

La prospettiva dell’ermeneutica giuridica assume l’idea della dignità umana nella sua forza intuitiva e nella sua comunanza per essenza a tutti gli uomini, ponendo l’attenzione ai modi di trattamento di ogni persona, nella concretezza della condizione esistenziale e delle relazioni sociali.

Sic stantibus rebus, i diritti dell’uomo rappresentano l’orizzonte normativo di riferimento dei discorsi intorno a “ciò che è giusto”, perché si prende in considerazione il punto di vista dell’altro, a cui qualcosa “spetta” e a cui verrebbe fatto un torto se venisse negata. La dignità umana è assunta, dunque, quale “Grundnorm” e la cui validità è assicurata erga omnes.

Il contributo filosofico che può venire dall’ermeneutica giuridica, consiste sia in una funzione cognitiva, per individuare le condizioni trascendentali che rendono possibile la comprensione dei diritti con riferimento all’umanità della persona, sia in una funzione normativa, ma soprattutto in una funzione regolativa dei diritti, sicché il legislatore e il giudice abbiano un egual riferimento nel momento della produzione e del giudizio.

Dunque, la prospettiva ermeneutica, risulterebbe rispettosa del rapporto dialettico di universalità/particolarità, così come assunto implicitamente nell’idea stessa dei diritti dell’uomo. L’universalità della titolarità e la loro validità sono specificazioni proprie della superiorità assiologica che tali diritti rivendicano rispetto ai vari ordinamenti nei quali sono calati.

Tuttavia, la indeterminata conquista dei diritti dell’uomo rispetto alla complessità e mutevolezza dei contesti di riferimento, rende lo scenario instabile ma in continua trasformazione che procede per successive specificazioni, all’affermazione di nuovi diritti ed alla precisazione in forma diversa di ditti in precedenza già riconosciuti.

In tal senso, i diritti dell’uomo, qualificabili come jus gentium, cioè quali principi giuridici comuni a tutti i popoli, ricercano la loro concretizzazione nelle dinamiche evolutive dei processi deliberativi ed applicativi, quindi nelle modalità effettive del loro esercizio.

Il momento dell’interpretazione giuridica, in dipendenza dell’ambito di applicazione del diritto, della pluralità delle pratiche argomentative ed ermeneutiche, deve assumersi come «codice strategico» rispettoso della evidenza dei fatti accertati e attento alla dignità dell’uomo, per affermare la «forza del diritto» che tutela il più debole e che riscatta dalla violenza e dal sopruso.

1 F. D’AGOSTINO, Filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2000.

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