Embrione: uomo in atto
di Danilo Saccoccioni, 22/04/2006
Che l’embrione umano sia un
essere vivente e abbia carattere personale fa parte di quelle
conoscenze del senso comune che non possono mai essere messe in
dubbio da nessuno, pena la contraddizione logica, come sarebbe facile
dimostrare. Eppure qualcuno ama la contraddizione.
Ho appena detto
a mia nonna, la quale non sa neppure scrivere, che gli studiosi nei
nostri paesi pare abbiano dimostrato che l’embrione non sia un
uomo. Con la sua acuta sapienza popolana, meravigliata, mi ha
risposto: “E questi sarebbero scienziati!?”.
Chi
conosce un pochino la storia del pensiero occidentale sa bene chi in
epoca moderna abbia voluto esasperare il dubbio sulla validità
delle conoscenze del senso comune: il caro Descartes, che nel XVII
secolo ha dato il via a tutto uno stile di pensiero alla disperata
ricerca di dimostrazioni per ogni cosa, trascurando che da un punto
di vista strettamente logico le conoscenze del senso comune sono la
base pre-filosofica di ogni successiva riflessione. Abbandonato il
realismo greco e medievale, ora i moderni danno la caccia
all’embrione, dimostrando che i cattolici, seguendo la nota
dottrina aristotelica dell’atto e della potenza e applicandola
al caso dell’embrione per esporre in modo rigoroso le ragioni
del suo essere uomo, contraddirebbero il loro stesso insegnamento
mostrando tutta la loro incompetenza dottrinale: mi riferisco, in
particolare, a un articolo del noto Emanuele Severino (Università
di Venezia) comparso sul Corriere della Sera dell’1/12/2004 dal
titolo “L’embrione e la vita, il paradosso di
Aristotele”, articolo in cui Severino dimostrerebbe che in
realtà l’applicazione corretta dell’insegnamento
aristotelico condurrebbe ad affermare che “uomo in potenza non
può voler dire essere umano in atto”.
Cerchiamo
allora di fare chiarezza sui termini “atto” e “potenza”
e diamo gloria alla Verità: l’embrione è un
essere umano dall’inizio del concepimento.
Consideriamo un
recipiente pieno d’acqua fredda rispetto alla nostra
temperatura corporea, poi cominciamo a riscaldare per mezzo di una
fiamma il tutto: l’acqua diventerà, dopo un po’,
più calda del nostro corpo. Ebbene, secondo la terminologia
aristotelica, l’acqua fredda, prima di essere scaldata, sarebbe
calda in potenza, poi, dopo il riscaldamento, sarebbe calda in atto.
L’acqua passa dal suo non-essere-calda al suo essere-calda:
questo passaggio dal non-essere all’essere mostrerebbe tutta la
sua intrinseca contraddizione se, a rimuovere proprio la
contraddizione, non intervenisse una causa esterna già in atto
rispetto al calore: la fiamma. Quello appena mostrato è un
semplicissimo esempio di quello che nella metafisica è
conosciuto come “principio di causa” o, esplicitandone
meglio l’analiticità, il “teorema di causa”:
“il concetto di causa si impone a partire dalla necessità
di rendere non contraddittorio il divenire degli enti” 1 .
Purtroppo, con l’abbandono della metafisica classica,
l’epoca moderna non considera più analitico il teorema
di causa: “nel campo scientifico, con l’avvento della
scienza moderna e dopo le critiche di Hume e Kant, la nozione di
causa è stata sostituita dal concetto di funzione matematica,
nel senso statistico, indeterministico, convenzionalistico e
operativistico”.2
Torniamo ora all’embrione.
Chiediamoci innanzitutto: che cosa distingue un vivente da un non
vivente? Certamente non è il biologo a doverci rispondere,
poiché la biologia come scienza deve già presupporre la
nozione di vita, così come la fisica come scienza deve
presupporre la nozione di ente fisico. Ebbene, “da un punto di
vista metafisico, […] l’atto del vivere, come atto
d’essere proprio dei viventi, definisce i viventi stessi come
quegli enti (fisici o spirituali) capaci per essenza di determinare a
diversi livelli il proprio comportamento. Questa capacità di
autodeterminazione parziale (nei viventi sub-umani) o totale
(nell’uomo e nelle sostanze spirituali) del proprio
comportamento […] è ciò che Platone e Aristotele
intendevano quando definivano il vivente come quell’ente capace
di movere se”.3 Dunque, in parole povere, ciò
che distingue un vivente da un non vivente è primariamente la
costruzione di sé in vista dei “due fini fondamentali
della sopravvivenza e della riproduzione”.4
Cerchiamo
ora di applicare correttamente (o comunque meglio di Severino nel
citato articolo) la dottrina dell’atto e della potenza al caso
dell’embrione. Partiamo dalla domanda banale: cosa fa
l’embrione a partire esattamente dal primo istante del
concepimento? Risposta altrettanto banale: COSTRUISCE SE STESSO. Ora,
potenza e atto a chi si riferiscono in questo caso? Nel caso
dell’acqua avevamo visto che il suo essere calda era stato
causato dalla fiamma, già calda in atto, che rimuoveva la
contraddizione del passaggio acqua fredda – acqua calda e che
evidenziava come in ogni processo trionfi la primarietà
dell’atto rispetto alla potenza. Ebbene, nel caso dei viventi,
ciò che causa la costruzione di sé è, udite
udite, nient’altro che l’embrione stesso!!! Cioè
l’embrione è causa del suo stesso divenire, cioè
l’embrione è in atto, anzi è atto stesso, poiché,
appunto, è causa del suo divenire, fin dal concepimento: si
badi che questa conclusione è semplicemente la traduzione in
termini metafisici dell’osservazione del comportamento
dell’embrione. E la potenza dove la mettiamo? Sempre
l’osservazione ci fa subito dire che l’embrione non è
in potenza quanto al vivere (abbiamo visto che quanto al vivere è
in atto), ma è in potenza quanto a tutti i fini che persegue,
su piccola come su larga scala: ad esempio, nel caso dell’uomo,
l’embrione è in potenza non quanto al suo essere uomo,
ma quanto all’esercizio effettivo della vista o della volontà
ecc…
Insomma, la straordinarietà dei viventi sta nel
fatto che la causa del loro divenire, anziché dover essere
ricercata in un altro ente già in atto (come succede per i non
viventi), si mostra in tutto il suo splendore inventivo in se stessi:
forse pochi lo sanno, ma questo era il principio che, fin dagli
antichi greci, veniva chiamato “anima”.
“Verrà
giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana
dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si
circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di
dare ascolto alla verità per volgersi alle favole”.5
Ecco, mi auguro che tutti gli Emanuele Severino che realizzano
questa profezia paolina si ravvedano presto: non accada loro di
essere giudicati da quei poveri innocenti nel Giorno del Giudizio,
ma, pentiti, giungano ad adorare con Salomone l’Eterna
Sapienza:
“La preferii a scettri e a troni,
stimai un
nulla la ricchezza al suo confronto; […]
L'amai più
della salute e della bellezza,
preferii il suo possesso alla
stessa luce,
perché non tramonta lo splendore che ne
promana”.6
1 Aniceto Molinaro, Lessico di
metafisica, Edizioni San Paolo, Milano 1998, pag. 38
2 Ibid., pag.
39
3 Gianfranco Basti, Filosofia dell’uomo, Edizioni Studio
Domenicano, Bologna 1995, pag.115
4 Ibid., pag. 124
5 2Ti
4,3-4
6 Sap 7,8.10