Il presente lavoro, dopo una breve sintesi dei contenuti del Sofista, mostra la soluzione platonica alle aporie sollevate dai pensatori dell’antica Grecia a proposito del problema dei “principi primi”, aporie nelle quali Platone si imbatte nella ricerca di una inattaccabile definizione, appunto, del “sofista”. Si mostreranno, infine, i necessari sviluppi che il pensiero deve elaborare per precisare, in una visione più sistematica, la soluzione di Platone.
Il filo conduttore dell’opera è, come si diceva, la ricerca di una definizione del “sofista” in un dialogo serrato tra Teeteto, discepolo di Teodoro amico di Socrate, e un non meglio identificato Straniero di Elea, sotto il cui anonimato la critica vi ha visto Platone stesso che espone il suo pensiero. Attraverso la tecnica diairetica, sul modello di una definizione del “pescatore con la lenza”, i due personaggi giungono a formulare in totale 7 definizioni diverse del “sofista” in modo tale che:
le prime cinque definizioni sono raggiunte abbastanza speditamente e presentano analogie quanto al significato attribuito al termine “sofista” che, nell’ordine, viene presentato come:
cacciatore interessato di giovani ricchi;
commerciante di nozioni a livello internazionale;
commerciante al minuto di nozioni riguardanti l’anima;
venditore al minuto di nozioni riguardanti l’anima, ma di sua produzione;
esperto di eristica (arte della confutazione: vi ritorneremo oltre in questo lavoro) volta al guadagno;
la sesta definizione suona un po’ anomala, tanto che poi la settima riprenderà la serie delle prime cinque: il sofista viene presentato come purificatore di ciò che è di impedimento all’anima nell’apprendere; al contrario delle precedenti, infatti, la presente definizione suggerisce un’immagine positiva di questo sfuggente personaggio. Le discussioni della critica paiono risolversi nell’attribuzione di questa nozione di sofista da parte di Platone “ai Gorgia e ai Protagora” appartenenti alla “prima generazione” di coloro che mettono “l’uomo a misura di tutte le cose”. Pare che Platone, pur non condividendo affatto la loro impostazione, tuttavia non li abbia voluti liquidare “senza un apprezzamento assai esplicito del loro impegno teorico”1. D’altra parte, “la 6a definizione del sofista si stacca troppo nettamente, nella sua eterogeneità rispetto alle altre, per poter essere solo ironica”2, come invece altra critica sembra insinuare;
la ricerca di una settima definizione è ostacolata da difficoltà la cui soluzione costituisce il centro e il fine di tutto il dialogo platonico.
In questa ricerca lo Straniero e Teeteto tentano di inserire il sofista nella “mimesi icastica” o, in alternativa, nella “mimesi dell’apparenza”: le “onnicompetenze” eristiche che la quinta definizione presenta del sofista, infatti, suggeriscono che questo personaggio sia in realtà un “incantatore” esperto di nulla. Tuttavia proprio in questo tentativo di inserimento compare l’astuzia e l’abilità eristica del sofista: che cos’è la mimesi? Che cos’è l’apparenza? Sono semplicemente non-essere, ma se il non-essere non è, come impone il divieto parmenideo, allora iniziano i guai per Teeteto e lo Straniero: qualunque tentativo di “mettere le mani addosso” al sofista sarà vano: egli si difenderà incondizionatamente colpendo le accuse rivoltegli con la stessa arma dell’avversario: il principio di non contraddizione così come l’ha formulato Parmenide nella sua interpretazione assolutistica, “binaria”. Non solo, ma Platone ha preparato e in un certo senso caricato di pathos le discussioni del resto del dialogo attraverso lo stesso pedante uso della tecnica diairetica, che presuppone proprio di scartare una delle due classi disgiunte nelle quali viene suddiviso passo-passo il genere di partenza: tale eliminazione non è forse una negazione? “Qual è il significato dell’enunciato negativo, in cui si afferma che qualcosa non è?”3 L’unica soluzione (nodo fondamentale di tutto il dialogo platonico) a queste aporie intravista dai due interlocutori è, pena la stessa impossibilità di parlare e finanche di pensare, la revisione del principio di non contraddizione nel modo in cui è stato formulato da Parmenide e finora compreso da tutti i suoi successori (“l’essere è e non può non essere, il non-essere non è e non può essere”): un modo assolutistico, tale da relegare ogni molteplicità e divenire all’ambito stretto dell’apparenza e, definitivamente, del non-essere.
Prima di proseguire, occorre evidenziare, almeno sotto un certo aspetto, l’innocenza di Parmenide a proposito della realtà della molteplicità delle cose; alcuni suoi frammenti mostrano chiaramente come egli non neghi “le cose ritenendole illusioni e apparenza, ma nega che le cose siano illusione e apparenza. […] In effetti si deve riconoscere che Parmenide, proprio per la preoccupazione di insistere sull’essere delle cose, ha lasciato insoluta la chiarificazione dell’alterità”4. Tuttavia, come si diceva poc’anzi, l’interpretazione di Parmenide intesa in senso assolutistico dà occasione ai due interlocutori Teeteto e lo Straniero di presentare in tutta la sua originalità la riflessione platonica che si situa precisamente nella chiarificazione, come ora si mostrerà, della alterità come appartenente all’essere e non ad altro da esso, cioè al non-essere assoluto.
Nella ricerca della settima definizione del sofista viene avviata infatti nel dialogo una confutazione delle teorie dell’essere abbracciate dai pensatori greci fino a Platone:
i Pluralisti non sono definitivamente in grado di garantire la pluralità, poiché l’essere vi appare sempre come un ulteriore principio (e uno) rispetto agli altri posti;
gli Unitari (= eleati) devono in modo “abbastanza ridicolo porre l’uno come realtà unica e ammettere che vi siano due nomi”5; Parmenide, in particolare, con il suo “essere come totalità”6 è finalmente costretto a sostenere relativamente al “non-essere la stessa cosa che l’uno, e così tutto l’insieme sarà più che l’unità”7;
i Materialisti riducono il reale al corporeo;
gli Amici delle Idee portano all’aporia di dover escludere il movimento dall’essere.
Vogliamo far notare che quello che abbiamo chiamato il “salto” platonico ha il suo punto di lancio proprio a partire da una domanda retorica dello Straniero nella confutazione degli Amici delle Idee che getta le basi per la nuova comprensione e sistemazione logico-metafisica del nostro autore: “così facilmente ci lasceremo persuadere che il movimento, e con esso vita e anima e pensiero non siano presenti in seno all’essere nella pienezza dei suoi rapporti?”8. Più che la molteplicità, qui la questione è il divenire, ma è chiaro che l’intento è quello di giungere a quella tanto sospirata novità del pensiero, trasposta dalla semplice esperienza a un livello di comprensione filosofico, che è la nozione di non-essere relativo, della alterità, della differenza, dell’essere contrario. A partire proprio dalla dualità quiete/movimento Platone risolve le aporie dei pensatori precedenti (trovando paradossalmente, invece della definizione del sofista, quella del filosofo) introducendo la nozione di “comunità dei generi” nella loro partecipazione reciproca secondo criterio e regola. L’attenzione viene posta solo sui cinque generi maggiori, la “categorie” platoniche: “la categoria fondamentale, l’essere; gli stati dell’essere, quiete e movimento; le relazioni dell’essere, vale a dire l’essere nel suo porsi come tale, l’identico, l’essere nel suo distinguersi dall’altro, il diverso”9. Attraverso una solida argomentazione che stabilisce alcune “maglie” dell’intreccio della reciproca partecipazione di questi cinque generi, Platone arriva alla seguente conclusione:
nell’ambito della totalità dei generi la natura del diverso, rendendo ciascun genere diverso dall’essere, lo fa non essere;
il non-essere ha essere, cioè è, ed è cosa diversa dall’essere, cioè è il diverso.10
Si vuole ora porre l’attenzione sui necessari completamenti da effettuare sui risultati platonici dandone una breve lettura critica per indicare la strada a una loro sistemazione teoretica. Innanzitutto da un punto di vista teoretico occorre notare come Platone, considerando l’essere come un genere, è costretto, nel corso dell’argomentazione sulla partecipazione relativa dei cinque generi principali, ad adoperare due piani semantici del termine “essere”: l’essere come genere e l’essere come appartenenza al genere dell’essere stesso. Tale sdoppiamento in realtà si manifesta anche per gli altri generi, al punto che l’intera argomentazione gioca sull’alternanza dell’uno o dell’altro piano semantico. Ora, sebbene questo non possa ritenersi accettabile dal punto di vista argomentativo di un’esposizione sistematica (ambiguità sull’uso di un termine in una argomentazione), niente vieta di riformulare in qualche modo la nozione di partecipazione in una concezione dell’essere quale quella tomista (essere-atto) e così i due piani che per Platone sono solo semantici diventano sistematicamente:
il piano trascendentale dell’essere, dove regna il principio di non contraddizione nella sua accezione assoluta;
il piano ontico dell’ente per partecipazione, dove “il principio di limitazione che fa di un ente questo ente e non un altro si chiama essenza”12.
Tale distinzione in qualche modo mantiene validi, mutatis mutandis, i risultati ottenuti da Platone: conferma (anzi è costruita proprio a partire dall’esperienza della molteplicità e del divenire) sia la possibilità del non-essere relativo come essere-altro e non altro-dall’essere, sia la possibilità del linguaggio di poter esprimere il falso; convalida l’esigenza ontologica della assolutezza (in senso parmenideo) del principio di non contraddizione; e infine permette di evitare le aporie dell’Uno e della Diade nel rapporto di “partecipazione-gerarchizzazione” della realtà13 introducendo come unico Fondamento e pienezza fontale di tutto l’essere14 l’Ipsum Esse Subsistens.
In questa impostazione, un corretto approccio che salva la molteplicità e la diversità dell’ente è costituito dalla cosiddetta analogia dell’ente: “ogni ente è ente per l’essere e dall’essere ed è nello stesso tempo molteplice e diverso in quanto è costituito dalla determinazione che è il molteplice e diverso modo di attribuzione o di riferimento o di sintesi con l’essere”15.
A quanto pare chi non ha voluto “saltare” con Platone è rimasto ancora aggrovigliato nelle aporie moniste e pluraliste!
1 Cit. di Mario Vitali: Platone, Il Sofista, Tasc.Bompiani, a cura di Mario Vitali, Milano, 1992, pag.XXXVIII
2 Il Sofista, op. cit., pag.171, nota 47
3 Il Sofista, op. cit., pag.L
4 A. Molinaro, Metafisica – Corso sistematico, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000, pag.31
5 Il Sofista, op. cit., pag.87
6 Il Sofista, op. cit., pag.89
7 Il Sofista, op. cit., pag.89
8 Il Sofista, op. cit., pag.101
9 Il Sofista, op. cit., pag.LV
10 Il Sofista, op. cit., pagg.LVI-LVII
11 Il Sofista, op. cit., pag.LXI
12 Mario Pangallo, Il Creatore del mondo, Casa Ed. Leonardo da Vinci, S.Marinella (Rm) 2004, pag.95
13 Metafisica – Corso sistematico, op. cit., pag.36
14 A. Molinaro, Lessico di Metafisica, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1998, pag.120
15 Metafisica – Corso sistematico, op. cit., pag.149